Santena – 23 ottobre 2011 – Dis eguito, alcune proposte di riflessione, per i giorni dal 23 al 29 ottobre 2011, tratte dalla liturgia del giorno, con commento alle letture domenicali.
Domenica 23 ottobre 2011
Quando griderà verso di me, io l’ascolterò
Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».
Es 22,20-26
Vi siete convertiti dagli idoli, per servire Dio
Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia.
Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne. Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
1Ts 1,5-10
Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Mt 22,34-40
Il principio d’amore dà senso e unità a tutta la rivelazione della Bibbia
Questo brano del Vangelo di Matteo acquista tutto il suo spessore se lo leggiamo dentro la nostra Babele. Ben a ragione potremmo dire di trovarci ancora oggi di fronte ad una Babele, simile a quella narrata dalla Scrittura: la città ove gli uomini avevano perso il riferimento all’unico Signore; la città della confusione dei linguaggi e della fatica a comprendersi. Gli uomini si erano impegnati in un gigantesco sforzo che avrebbe dovuto consacrare la loro onnipotenza e soddisfazione. Ma, perso il contatto con Dio, ognuno ricercava il proprio interesse individuale perdendo così anche la capacità dell’incontro reciproco. Babele è il luogo degli appuntamenti mancati, sia con Dio che con gli uomini. Nel Vangelo alcuni farisei si avvicinano per chiedere a Gesù quale sia il più grande comandamento della legge. Per meglio comprendere questa domanda bisogna ricordare che le varie correnti religiose dell’ebraismo avevano codificato ben 613 precetti, di cui 365 negativi e 248 positivi. Una notevole mole di disposizioni; anche se non tutte dello stesso valore. Nella tradizione biblica era chiaro quale fosse il primo. Nel libro del Deuteronomio lo si diceva chiaramente: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore” (Dt 6,4-5). Come pure era noto il precetto di amare il prossimo. Per la tradizione rabbinica basti ricordare la formula attribuita a Hillel (rabbino del I sec.): “Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te, questa è tutta la legge. Il resto è solo spiegazione”. Un altro ebreo gli fa eco: “Tu devi amare il prossimo tuo come te stesso”. Non è dunque esatto affermare che nella tradizione giudaica non ci fosse una gerarchia di precetti. L’originalità evangelica non sta nel fatto di ricordare ambedue i principali precetti, ma nel collegarli strettamente al punto da unificarli. Il comandamento riguardante l’amore del prossimo è assimilato al primo e massimo comandamento sull’amore integrale e totale per Dio, in quanto appartiene alla stessa categoria di principio unificante e fondamentale. La strada per arrivare a Dio incrocia necessariamente quella che porta agli uomini. E a quegli uomini che maggiormente debbono essere difesi perché più deboli. Difendendo loro, si difende Dio. Giovanni, l’evangelista, arriva a dire che “siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1 Gv 3,14). Non solo. Dio non sembra neppure mettersi in concorrenza con l’amore per gli uomini; in un certo senso non insiste sulla reciprocità dell’amore (che è ovvio debba esserci). Gesù, infatti, non chiede: “Amatemi, come io vi ho amati”, ma: “Amatevi allo stesso modo con cui io vi ho amati”. La Scrittura, nelle sue disposizioni circa l’ospitalità e l’accoglienza, non fa altro che situarsi in questo orizzonte. Essa chiede di ospitare gli stranieri (non sarebbe necessario fare una ulteriore riflessione anche sulle disposizioni legislative emanate in Italia, in questo Paese “pigro e satollo”, con fretta e approssimazione?) e chiede di soccorrere l’orfano e la vedova. Sono due esigenze che nella Babele del fervore consumista sono necessariamente accantonate. Ma Dio stesso si metterà dalla parte dei deboli, e li difenderà. Ebbene, da questi due comandamenti (o dall’unico amore) dipende (letteralmente “pende”) tutta la legge e i profeti. Equivale a dire che questo principio d’amore dà senso e unità a tutta la rivelazione della Bibbia. Ma è anche la lingua unificante i tanti linguaggi e le tante culture che ormai costituiscono la nostra Babele. Infatti, tutti possono parlare la lingua dell’amore del prossimo, anche coloro che non credono; e Dio la capisce perché è la sua lingua. Ce lo ricorda il noto brano di Matteo: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35), dice Dio a quell’ignaro uomo caritatevole. E lo salva. Questo modo di comportarsi salva anche Babele dalla confusione e dalla tragedia. Non a caso allora possiamo riscoprire l’altro significato di Babele, ossia “porta del cielo”. Sì! Se parliamo la lingua dell’amore (una lingua che si può parlare in tante culture e anche in tante fedi diverse), la nostra Babele può diventare non la città della confusione, dell’ambiguità e degli appuntamenti mancati, bensì la città che ci apre la “porta del cielo”.
Comunità di Sant’Egidio
La prassi dell’amore è compimento della Scrittura
La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torah (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torah, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (cf. Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi, come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (cf. Lv 19,18; Mt 22,39). La Torah, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è Vangelo. Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come “perenne” è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero “al tramonto del sole” il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo?” (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui. La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: “perché voi siete stati immigrati nel paese di Egitto” (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese. La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Un apoftegma dei padri del deserto narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: “Dov’è il tuo vangelo?”, rispose: “Ho venduto colui che mi diceva: ‘Vendi quello che possiedi a dallo ai poveri’”. Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana. Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale. Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. “Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente” (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono “un altro”, sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama. La somiglianza (cf. Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20).
Luciano Manicardi
Comunità di Bose
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Lunedì 24 ottobre 2011
Non doveva essere liberata da questo legame?
In quel tempo, Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato». Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?». Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.
Lc 13,10-17
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Martedì 25 ottobre 2011
Il regno di Dio è simile a un granello di senape
In quel tempo, diceva Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami». E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Lc 13,18-21
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Mercoledì 26 ottobre 2011
Sforzatevi di entrare per la porta stretta
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici!. Ma egli vi risponderà: Non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli vi dichiarerà: Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Lc 13,22-30
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Giovedì 27 ottobre 2011
E’ necessario che io prosegua nel cammino
In quel momento si avvicinarono a Gesù alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». Egli rispose loro: «Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
Lc 13,31-35
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Venerdì 28 ottobre 2011
Gesù se ne andò sul monte a pregare
In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.
Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.
Lc 6,12-19
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Sabato 29 ottobre 2011
Non metterti al primo posto
Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cédigli il posto!. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti!. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Lc 14,1.7-11
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