Torino, saluto dell’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, al convegno “La demenza di Alzheimer: assistere chi assiste” presso l’ospedale “San Luigi” di Orbassano

Torino – 23 ottobre 2012 – Oggi pomeriggio l’arcivescovo, alle 15.30, ha salutato i partecipanti al convegno «La demenza di Alzheimer» presso l’ospedale San Luigi, di Orbassano. Di seguito, il testo pronunciato.

ARCIDIOCESI DI TORINO –  CURIA METROPOLITANA

Ufficio Comunicazioni Sociali

COMUNICATO   STAMPA

 

SALUTO DELL’ARCIVESCOVO DI TORINO, MONS. CESARE NOSIGLIA, AL CONVEGNO “LA DEMENZA DI ALZHEIMER: ASSISTERE CHI ASSISTE” PRESSO L’OSPEDALE “SAN LUIGI” DI ORBASSANO

(Orbassano, Ospedale “San Luigi Gonzaga”, 23 ottobre 2012,ore 15,30)

«1. Sono lieto di rivolgere il mio saluto ed augurio a tutti voi impegnati in questo incontro a riflettere ed approfondire una malattia del nostro tempo, spesso così devastante la personalità degli anziani e difficile da gestire da parte delle famiglie.

Gestire queste persone malate appare un’impresa ardua, perché i normali parametri di riferimento per stabilire una relazione sembrano compromessi del tutto. Sono convinto invece che questi malati abbiano un mondo ricco di ricordi e di valori, che – anche se essi non riescono più a vivere e a comunicare con l’esterno come noi vorremmo – resta intatto dentro il cuore. Come superare la barriera che si è determinata tra questo mondo interiore e la realtà esterna delle persone e della vita? È una domanda spesso angosciosa per chi ha a che fare con tali malati, ma anche la sfida che dobbiamo saper accogliere con serenità ed impegno. Ancora più che in altre malattie, questi nostri amici ci appellano dal profondo del loro spirito affinché non li abbandoniamo e sappiamo stare loro vicini con amore e con capacità di ascolto profondo e coinvolgente.

Viviamo in una società del rumore e del chiasso sfrenato, delle parole roboanti, proprie degli spettacoli televisivi, che tendono a trasformare anche la realtà in fatto virtuale. Rischiamo, dunque, di perdere quelle risorse di intuizione e di sensibilità, di ascolto del mondo interiore delle persone a cui pure vogliamo bene, che ci consentono di capire il cuore e i linguaggi metaverbali, per cui il mondo di questi malati ci appare vuoto o morto, quando invece è ancora ricco e vivo, ma lo è nell’intimo, senza capacità di esprimersi all’esterno.

Dobbiamo farci discepoli di questi fratelli e sorelle e non maestri. La pretesa di “sapere” e di “avere” rispetto a loro, che non sanno più e non hanno più, ci rende incapaci di rompere la barriera che ci divide da loro. Una società senz’anima produce persone senz’anima, che non avranno mai la possibilità di dialogare e di capire chi vive di quest’anima tutto il giorno. No, non sappiamo più leggere il cuore nemmeno di chi pure ci parla e ci è vicino spesso. Come volete che sappiamo leggere il cuore, lo sguardo e l’anima di chi ci sembra chiuso dentro un mondo tutto suo, privo di contatti reali con il passato e il presente?

Allora, comprendiamo che la formazione di chi si occupa di questi malati non può muoversi solo negli ambiti medici e psicologici, ma deve scendere nella profondità dello spirito, deve nutrirsi del dono dello Spirito, deve imparare ad ascoltare il proprio mondo interiore così da imparare a rapportarsi con quello degli altri. La formazione e la riqualificazione degli operatori ha dei costi certamente alti, ma è l’unica via che permette di rispondere alle sfide dei nostri tempi in riferimento a questa patologia così delicata e di difficile gestione che risponde al nome di morbo di Alzheimer.

Il problema non riguarda solo la formazione ma, ancora più a monte, un sistema di valori di fondo che sostenga culturalmente e socialmente il rapporto con questi malati a partire dalla loro soggettività individuale, riscoperta ed accettata come una ricchezza da valorizzare e stimolare attraverso mezzi e vie diversi da quelli usuali del rapporto interpersonale e con la realtà.

2. In questo senso diventa decisivo un importante fattore da prendere in considerazione: la famiglia di questi malati, che spesso si trova, in pochi anni, a dover far fronte a situazioni che precipitano senza sapere come gestirle. Occorre trovare vie di solidarietà e di incontro con le famiglie per aiutarle non solo nel momento della prova, ma anche prima, offrendo tutti quei supporti e possibilità di essere informati sulla malattia e su come gestirla in caso che colpisca un congiunto. Un compito educativo, che si inserisce nell’educazione alla salute che dovrebbe cominciare dalla scuola per continuare nei diversi ambiti della formazione, quali le università per la terza età e gli incontri per adulti e giovani chiamati a stare con gli anziani e a seguirne passo, passo l’invecchiamento.

Purtroppo la mancanza del senso del limite e un concetto di bene-essere a tutti i costi, legato anche alla richiesta quasi assoluta di una sanità che deve e può risolvere tutti i problemi, rende spesso sterili i tentativi di impostare per tempo un’efficace gestione degli stessi e di affrontarli poi con coraggio e forza morale. La nostra società è infatti impostata sul divertimento, l’evasione e lo stare bene, per cui le situazioni, anche gravi, si prendono in considerazione solo quando capitano o non è  più possibile evitarle. Non c’è una politica di prevenzione positiva ed educativa, che faccia conoscere ed introduca nel mondo delle varie patologie più comuni dell’età anziana così da rendere edotti poi su come gestirle, sia da parte di chi le contrae che dei familiari e della comunità.

Anche la comunità è infatti interpellata da questo. Isolare tali malati aggrava il loro stato di solitudine e di abbandono. La comunità deve mantenere un suo ruolo positivo, anche in questi casi, per accompagnare e circondare le famiglie e gli stessi malati di un ambiente accogliente, sereno e di sostegno psicologico, spirituale e sociale.

3. Richiamo a questo proposito quanto ho più volte denunciato in questi mesi a proposito delle fatiche delle famiglie, che si stanno ancora più estendendo. La persistente crisi economica e i numerosi sacrifici che vengono loro richiesti, anche in fatto di sostegno a servizi essenziali per la loro vita, aggrava la situazione già precaria di tanti nuclei familiari, che non riescono più a far fronte alle spese normali e quotidiane necessarie per se stesse, per i figli o per gli anziani. Lo percepisco anche dalle molte lettere di famiglie con congiunti sottoposti a patologie gravissime e prolungate nel tempo, come quella dell’Alzheimer, che soffrono per carenza di servizi e di assistenza sanitaria o sociale adeguate ai loro problemi. Queste famiglie devono sopportare spesso un carico di risorse umane, economiche e di assistenza ai loro cari  molto pesante e continuato, che solo una più solidale e giusta politica familiare, da parte delle istituzioni pubbliche e dei servizi sociali, può aiutare ad affrontare con serenità e fiducia.

Le povertà estreme, inoltre, una volta proprie di poche persone, stanno estendendosi ed i servizi attivati necessitano di un più efficace coordinamento, per non disperdere le risorse, e di una più valida strategia di intervento, che si investa delle esigenze e necessità non solo sanitarie ma anche umane, spirituali e sociali delle famiglie e dei soggetti che soffrono gravi patologie.

Il problema va affrontato non solo sul piano dei servizi, ma prima ancora su quello della cultura. Occorre promuovere una cultura della vita e della solidarietà, che metta sempre la persona al centro, quale tesoro prezioso e soggetto di diritti inalienabili ed universali. Non si può discriminare tra vita e vita, considerando vita degna di essere vissuta solo quella che risponde a parametri stabiliti a priori da una cultura del bello e del sano, appariscente e di tipo fisico ed esteriore, senza tener conto del diritto di ogni persona ad essere accettata così com’è e ad essere considerata in tutta la sua positività sul piano spirituale e morale. L’uomo non vale per quello che sa fare o per quello che appare nel suo corpo, ma per quello che è in quanto persona creata  a immagine e somiglianza di Dio, soggetto di diritti inalienabili e universali, e dunque risorsa e valore da custodire e apprezzare per tutta la società.

Che vale all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde anche uno solo dei suoi fratelli? E che cosa potrà dare in cambio della vita di un suo simile? Così ci ricorda il Vangelo. Ma per attuare questo principio evangelico di giustizia e di solidarietà occorre far crescere in tutti questa consapevolezza: più decresce il rispetto verso la qualità della vita di una persona e più diminuisce anche il rispetto verso la propria vita personale. La dignità di ogni persona e la sua sacralità sono per la fede cristiana assolute sempre, in ogni circostanza di salute e di malattia, di inizio o di fine, e mai vanno considerate minori rispetto ad un’altra, in quanto i parametri che determinano la grandezza o meno dell’uomo sono l’uomo stesso nella sua irripetibilità e ricchezza di persona. È necessario che queste convinzioni derivanti dalla nostra cultura cristiana e civile trovino concretezza nelle scelte di ogni giorno, per lottare contro ogni forma di sopraffazione culturale e sociale su questo punto e per non lasciarsi abbattere dall’impotenza, ma reagire con forza sul piano della giustizia e del diritto primario che ogni persona umana ha ad essere amata, accolta, sostenuta e promossa.

Le risorse di personale e di strutture, come quelle economiche, destinate a chi porta con sé disabilità gravi, sono un investimento che fa crescere l’intera società in valori positivi che non hanno prezzo e per questo non possono essere considerate solo sul piano assistenziale e dunque in “perdita” per il bilancio, ma anche su quello produttivo e dunque in profitto, perché più cresce la solidarietà e l’amore in una società e più cresce anche la sua forza di civiltà e di progresso.

4. Vedo con gioia che questo discorso è tenuto in considerazione da parte di tanti operatori e volontari e che cresce la sensibilità e l’attenzione alla persona umana, considerata anche nella sua dimensione etica e spirituale. Sono grato a quanti, come voi, si impegnano a trovare sempre nuove vie e risorse per affrontare questo problema nel migliore dei modi possibili. La collaborazione tra pubblico e privato, tra ambito sociale ed organismi ecclesiali è decisiva per percorrere vie di collaborazione fattiva sul piano della formazione e dei servizi. Solo operando in rete e dando vita a raccordi stretti e convergenti tra famiglie, volontari, assistenza domiciliare integrata, centri diurni e unità di ricovero per i casi più gravi, è possibile far fronte alle necessità dei malati di Alzheimer.

Mi auguro allora che questi indirizzi di cui ho parlato si consolidino e siano sempre tenuti in debita considerazione in tutte le realtà sanitarie e di accoglienza dove tanti anziani sono assistiti e vengono seguiti nell’evolversi delle loro patologie. Ugualmente auspico che anche i programmi delle politiche sociali delle Istituzioni e degli Enti locali, la destinazione delle risorse, l’educazione culturale e l’impegno congiunto delle comunità ecclesiali e civili interessate, il volontariato sociale e sanitario e tutte le altre componenti che entrano in gioco in questo delicato settore, sappiano operare congiuntamente con le famiglie e gli stessi malati per non rassegnarsi mai alla malattia ed impegnarsi nella prevenzione e nella gestione dell’ Alzheimer con la massima cura ed il più ampio coinvolgimento.

Nel ringraziavi per il vostro impegno, porgo a tutti il mio più vivo saluto unito alla preghiera per la buona riuscita di quest’incontro.

+ Cesare Nosiglia
Arcivescovo di Torino»

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Fonte: ARCIDIOCESI DI TORINO – CURIA METROPOLITANA
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