Una pausa per lo spirito – proposte di riflessione per i giorni dal 10 al 16 marzo 2013

Santena – 10 marzo 2013 – Di seguito, alcune proposte di riflessione, per i giorni dal 10 al 16 marzo 2013, tratte dalla liturgia del giorno ,con commento alle letture domenicali.

Domenica 10 marzo 2013

Mangiarono i frutti della terra di Canaan

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIn quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Gs 5,9a.10-12

Se uno è in Cristo, è una nuova creatura

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
2Cor 5,17-21

Cominciarono a far festa

In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Lc 15,1-3.11-32

Qualcuno ci accoglie così come siamo

Questa domenica è chiamata laetare (domenica della letizia) dalla prima parola della Liturgia. La Chiesa invita a interrompere la severità del tempo quaresimale. Il colore viola, segno proprio di un tempo di penitenza, cede il passo al rosa, per la letizia che viene donata oggi al nostro cuore, quasi a far pregustare la gioia della Pasqua. La serenità che troviamo in questa liturgia non nasce da noi, è un dono dall’alto; non promana dalla nostra onestà o da altre nostre qualità, essa trova ragione nel fatto che qualcuno ci accoglie così come siamo, senza neppure un previo esame. Il Vangelo inizia notando che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. L’evangelista sembra sottolineare con soddisfazione questo strano pubblico che si accalca attorno a Gesù. Per i farisei, invece, è segno di scandalo, perché la comunanza della mensa con i peccatori significava coinvolgimento nelle loro impurità. La loro accusa contro Gesù, pertanto, non era di poco conto. Ma questa scena, ch’è di scandalo per i benpensanti, per noi è Vangelo, “buona notizia”. È davvero una notizia lieta che Gesù frequenti i peccatori. Del resto, la liturgia domenicale non è il convito di Gesù con noi, peccatori? Non conversa egli con noi? Non ci dona da mangiare il suo pane e da bere il suo calice? Sì, nella liturgia della domenica ogni volta si realizzano questi tre versetti del Vangelo di Luca. Sia ringraziato il Signore per questo dono grande e certamente non meritato! Solo chi si sente “a posto” non capisce questa pagina evangelica e non riesce neppure a gustare la gioia che da essa promana. Solo chi non ha bisogno di essere accolto, perdonato e abbracciato ragiona allo stesso modo dei farisei e degli scribi. E a prima vista la loro grave accusa è più che ragionevole. Come si difende Gesù? Non parlando di sé, ma del Padre. E narra la nota parabola detta del “figlio prodigo” (sarebbe meglio chiamarla del “padre misericordioso “). Forse è tra le pagine evangeliche più sconvolgenti. Si apre con la richiesta del figlio più giovane di avere la sua parte di eredità. Ottenutala, se ne va via di casa. La sua vita, inizialmente brillante e piena di soddisfazioni, è poi colpita dalla violenza della carestia e dall’abbandono degli amici. Resta solo ed è costretto a fare il guardiano di maiali; è l’unico modo per sopravvivere! Persino i maiali stanno meglio di lui: “Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava” (v. 16), nota tristemente l’evangelista.
La vita di questo figlio è spezzata, come spezzati sono i suoi sentimenti. Quanto gli è amaro ricordare i giorni in cui stava a casa di suo padre! Ma è proprio l’amarezza della vita in cui è caduto a farlo rientrare in se stesso: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; trattami come uno dei tuoi garzoni”. Si alza dalla sua triste condizione e si incammina verso casa. Il padre sta in attesa. L’evangelista sembra suggerire di vederlo. Possiamo immaginarcelo sul terrazzo di casa che guarda lontano, verso l’orizzonte, nella speranza di vedere il figlio tornare: quando il figlio “è ancora lontano”, il padre lo vede e “commosso gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia”. Non sa ancora perché il figlio stia tornando, né conosce cosa gli dirà, ma non importa. Quel che conta è che sta tornando. Non gli permette di dire nulla e gli getta le braccia al collo. Il cuore del figlio si scioglie e così pure la sua lingua. Pronuncia poche parole. Sembra che il padre neppure stia a sentirle e, dopo averlo rivestito con abiti nuovi, con i calzari ai piedi e con l’anello al dito, ordina di fare immediatamente una grande festa. Tutto avviene in brevissimo tempo. Torna dai campi anche il figlio maggiore, tutto casa e lavoro potremmo dire. Ma appena apprende il motivo della festa, va su tutte le furie e non vuole entrare. Ancora una volta è il padre che esce. Va incontro al figlio e lo prega di comprendere la bellezza di quanto è accaduto e lo invita a entrare e a far festa anche lui. Quel figlio non solo non entra, addirittura ha parole dure verso il padre: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Il padre risponde con dolcezza: “Tu sei sempre con me” e con fermezza aggiunge: “Bisogna far festa”. Ha compreso che anche quel figlio è lontano, pur stando dentro casa. Pur essendo il figlio maggiore, non capisce l’amore del padre né il bisogno di affetto e di perdono che ha il fratello minore. Il padre è fermo con lui: non accetta che resti chiuso nella tristezza del suo egoismo. È una fermezza che esprime un amore altrettanto grande, come quello che aveva mostrato per il figlio più giovane. In una società avara nell’accogliere i deboli, poco pronta a perdonare, questa parabola è davvero una buona notizia, un Vangelo. Gli uomini hanno bisogno di un padre come questo, di una casa come questa, ove non solo si è accolti, ma anche abbracciati con gioia.
Comunità di Sant’Egidio

Difficoltà di riconoscere e comprendere l’amore

L’annuncio dell’amore fedele e misericordioso di Dio che diviene perdono è al cuore del messaggio di questa domenica. Perdono è il nome che il figlio minore della parabola, una volta tornato a casa, potrà dare all’amore fedele del padre che ha continuato ad amarlo anche quando lui si è allontanato e ha disdegnato la sua vicinanza. La parabola rivela la difficoltà di riconoscere e comprendere l’amore, di accogliere la misericordia: i due figli, per vie diverse, faticano ad accettare la loro condizione di figli e l’amore del padre (vangelo). Il passo di Giosué, che presenta la prima pasqua celebrata da Israele in terra di Canaan, mostra Israele, il figlio di Dio (cf. Es 4,22; Os 11,1), che entra nella casa che il Signore ha preparato per lui dopo averlo fatto uscire dalla casa dove ha vissuto come schiavo: la celebrazione della Pasqua è la giusta e necessaria festa che esprime la gioia di Dio e del popolo liberato. Certo, una volta entrato nella terra, Israele (come il figlio maggiore della parabola evangelica) correrà il rischio di sentirsi giusto, e potrà vivere il dono di Dio come motivo di autosufficienza fino a non discernere più la misericordia divina (I lettura). Il testo paolino contiene l’invito alla riconciliazione che l’Apostolo rivolge ai cristiani di Corinto fondandolo sulla riconciliazione che Dio ha già attuato in Cristo con il suo amore misericordioso (II lettura). Nei tre testi è implicita una dinamica pasquale: la celebrazione pasquale celebra il passaggio dall’Egitto alla terra promessa (I lettura); l’accoglienza della grazia di Dio in Cristo rende amici di Dio coloro che erano peccatori e li fa divenire nuove creature (II lettura); nella parabola la dinamica pasquale è sottesa al passaggio dalla morte alla vita del figlio che era perduto (vangelo). Il peccato, secondo la parabola evangelica, appare come misconoscimento dell’amore. Entrambi i figli non accedono alla loro verità di figli: l’uno fugge da casa e dal padre; l’altro resta in casa vivendo da schiavo e con risentimento verso il padre. Senza libertà non c’è amore e si arriverà a fuggire da una casa divenuta prigione soffocante o a restarvi nella logica del dovere e dell’obbligo, dunque da schiavi, non da figli (cf. Gv 8,35). Decisivo nel processo di ritorno a casa del figlio minore è il suo essere “rientrato in se stesso” (v. 17). Il giovane smette di fuggire quando prende contatto con se stesso, quando osa la propria interiorità. Non si tratta ancora di conversione, ma di lettura realistica di sé, di presa di coscienza della penosa situazione in cui è finito. Ciò che la parabola imputa al figlio minore non è tanto la dissolutezza morale (si è accompagnato con le prostitute) o la prodigalità (ha dissipato il patrimonio), ma l’insensatezza, l’aver vissuto asótos, lontano dal senso, in modo folle, dissennato (v. 13). Il testo non presenta la sequenza peccato – pentimento – conversione, ma una scelta di vita dissennata, a cui segue la presa di coscienza della misera realtà a cui il giovane si è ridotto e infine la decisione di tornare a casa per fuggire la fame. Nessun pentimento muove il figlio minore, ma solo una valutazione realistica di ciò che più è conveniente per lui. Il pentimento non appare qui la condizione del perdono. Il pentimento potrà nascere di fronte all’amore fedele del padre, quando cioè il giovane potrà rileggere la propria vicenda alla luce dell’amore mai venuto meno del padre che egli ha simbolicamente ucciso chiedendogli anzitempo l’eredità. È il perdono che suscita il pentimento, non il contrario. All’amore del padre si oppone anche la logica del dovere che muove (anzi che rende immobile) l’altro figlio. Egli vive una religione di prestazioni che rende cattivo il suo occhio e lo porta a misconoscere il padre (che diviene un padrone) e a disprezzare il fratello (“questo tuo figlio”: v. 30). Entrambi i figli cercano di sottrarsi all’unica cosa necessaria: riconoscere e assumere la loro filialità e la loro libertà. Lo Spirito santo è infatti spirito da figli, cioè spirito di libertà, non spirito da schiavi, ovvero spirito di paura (cf. Rm 8,15).
Comunità di Bose

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Lunedì 11 marzo 2013

Se non vedete segni e prodigi, voi non credete

In quel tempo, Gesù partì [dalla Samarìa] per la Galilea. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa. Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.
Gv 4,43-54

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Martedì 12 marzo 2013

È sabato e non ti è lecito…

Ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare. Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”». Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: “Prendi e cammina?”». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.
Gv 5,1-16

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Mercoledì 13 marzo 2013

Non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato

In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio. Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. Da me, io non posso far nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato».
Gv 5,17-30

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Giovedì 14 marzo 2013

Vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio

In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: «Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita. Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dal’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
Gv 5,31-47

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Venerdì 15 marzo 2013

Chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete

In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo. Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi  di nascosto. Alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». Cercarono allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora.
Gv 7,1-2.10.25-30

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Sabato 16  marzo 2013

Mai un uomo ha parlato così

In quel tempo, all’udire le parole di Gesù, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: “Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo”?». E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: «La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». E ciascuno tornò a casa sua.
Gv 7,40-53

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