Santena – 27 ottobre 2013 – Alcune proposte di riflessione, per i giorni dal 27 ottobre al 2 novembre 2013, tratte dalla liturgia del giorno, con commento alle letture domenicali.
Domenica 27 ottobre 2013
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
Sir 35,15-17.20-22
Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
2 Tm 4,6-8.16-18
Chiunque si esalta sarà umiliato
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Lc 18,9-14
Sono molti coloro che si sentono più giusti degli altri
“La preghiera dell’umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta”. Queste parole del libro del Siracide (35,17), che aprono la liturgia di questa domenica, ci pongono in continuità con quanto abbiamo ascoltato domenica scorsa. La preghiera resta l’orizzonte nel quale la Parola di Dio ci immette. Ma non è più l’insistenza nel rivolgersi a Dio, come nell’episodio della povera vedova, bensì l’atteggiamento che l’uomo deve avere nella preghiera. L’evangelista Luca (18,9-14) inizia la narrazione della notissima parabola del fariseo e del pubblicano che si recano al tempio, con una premessa che ne mostra la ragione: “Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Si tratta in verità di una situazione nella quale tutti possiamo ritrovarci. Ognuno di noi, in fondo, ha una buona considerazione di sé, accompagnata, invece, da un senso piuttosto critico verso gli altri. E credo sia opportuno sottolinearlo nei nostri tempi, perché è diventato fin troppo facile puntare il dito contro gli altri, senza guardare se stessi. Storture e deviazioni avvengono anche perché l’ambiente spesso le permette o le tollera. Non c’è dubbio che la caduta della tensione morale ci vede tutti corresponsabili, seppure in diverso grado, per cui è difficile tirarsene totalmente fuori.
La parabola di questa domenica è, perciò, davvero attuale: sono davvero molti coloro che si sentono più giusti degli altri; potremmo dire che il “tempio” di questo mondo è stracolmo di gente che “presume di essere giusta e disprezza gli altri”. Il fariseo, che sta ritto in piedi davanti all’altare e ringrazia Dio per la vita buona che conduce, non è solo, è circondato dalla maggioranza. Il fariseo ha da vantare cose che la maggioranza difficilmente può presentare. In effetti ha qualcosa di esemplare: che vada al tempio è cosa buona; è anche bello che non si nasconda da una parte e non si metta in fondo vicino alla porta, come accadeva e accade ancora in molte nostre chiese. Inoltre, quel che il fariseo dice è vero: non è un ladro, non è un imbroglione, non tradisce la moglie ed è diverso da quel pubblicano che si è fermato in fondo. Poi digiuna veramente due volte la settimana e paga le offerte. Non sono cose da poco; non tutti le fanno. È quindi anche giusto che ringrazi Dio. Insomma sembra davvero a posto in tutto. Quanto al pubblicano, c’è da dire la stessa cosa, sebbene in tutt’altro senso. Che si fermi in fondo al tempio non è poi così esemplare; e se non ha il coraggio di alzare gli occhi al cielo è certo per buoni motivi. Se si batte il petto, lo fa a ragione. Si chiama peccatore e lo è veramente. Insomma, non è una persona che possiamo definire “perbene”. Ma lo sa ed è pentito. Ed è proprio qui il motivo che fa rovesciare il giudizio della parabola. Gesù dice chiaramente che davanti a Dio non contano le opere che uno può accampare, bensì l’atteggiamento del cuore.
Questa parabola è certo una lezione sulla preghiera, ma ancor più lo è circa l’atteggiamento da avere davanti a Dio. Il peccato del fariseo non è sul piano delle pratiche religiose (le osserva tutte e con scrupolo), ma su quello della presunzione, dell’autosufficienza, della grettezza e della cattiveria, che lo spinge a giudicare con disprezzo il pubblicano peccatore. Lo si vede che è un peccatore da come giudica il pubblicano: senza pietà. Il fariseo sale al tempio non per chiedere aiuto o per invocare il perdono; anzi si sente in grado di fare lui le sue offerte a Dio. Ha un cuore pieno di sé.
Il pubblicano, pur avendo raggiunto un notevole benessere nella vita, magari è anche temuto, al contrario, si sente bisognoso. Egli sale al tempio non a mani colme ma vuote, non per offrire ma per chiedere. Il suo atteggiamento davanti a Dio è quello di un mendicante che tende la mano (profittiamo per ricordare che i mendicanti davanti alle chiese sono il segno della nostra condizione davanti a Dio, come scrive sant’Agostino). Per l’evangelista, il pubblicano è il prototipo del vero credente: questi non confida in sé e nelle proprie opere, anche buone, ma solo in Dio. È ancora una volta il paradosso evangelico: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (v. 14). Sta anche scritto: “Chi è povero cerca il Signore”, non chi si sente giusto. È una grande verità e una grande saggezza che il Vangelo oggi propone alla nostra riflessione.
Comunità di Sant’Egidio
La preghiera richiede umiltà
Preghiera e autenticità: questo il rapporto posto in luce dal brano dell’Antico Testamento e dal vangelo. Il Signore gradisce la preghiera del bisognoso e dell’oppresso (I lettura) e accoglie la preghiera del pubblicano che si proclama peccatore davanti a lui (vangelo). Vi è una fiducia in se stessi, un credersi giusti, che rende non accetta la preghiera del fariseo al tempio (cf. Lc 18,14), così come vi è la possibilità di un culto che è solo una farsa, una burla, perché commisto a ingiustizia e empietà (cf. Sir 34,18-19; 35,11). Nella preghiera si riflette e si svela l’autenticità o la falsità di ciò che si vive. La preghiera dei due uomini al tempio, così vicini e così lontani al tempo stesso, ci pone la questione di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo, in una liturgia. È possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e dal disprezzo (“non sono come questo pubblicano”: Lc 18,11). L’autenticità della preghiera, dell’offerta fatta al Signore nel culto, passa attraverso la qualità buona delle relazioni con i fratelli che pregano con me e che formano con me il corpo di Cristo. Nella preghiera emerge anche quale sia la nostra immagine di Dio e la nostra immagine di noi stessi. Il fariseo prega “rivolto a se stesso” (pròs heautòn: Lc 18,11) e la sua preghiera sembra dominata dal suo ego. Egli formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia non per ciò che Dio ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così completamente sconvolto: il suo “io” si sostituisce a “Dio”. La sua preghiera è in realtà un elenco delle sue prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere “come gli altri uomini” (Lc 18,11). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio e gli impedisce di vedere come un fratello colui che prega accanto a lui. La sua è la preghiera di chi si sente a posto con Dio: Dio non può che confermarlo in ciò che è e fa. È un Dio che non gli chiede alcun cambiamento e conversione perché tutto ciò che egli fa, va bene. Il fatto che lo sguardo di Dio non gradisca la sua preghiera (Lc 18,14: “il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro”) smentisce la sua presunzione, ma afferma anche che noi possiamo pregare con ipocrisia e continuare a pregare senza pervenire ad autenticità e verità. La differenza di atteggiamento dei due uomini è visibile anche dalla postura del corpo da loro assunta: il fariseo esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro, stando in piedi, a fronte alta, mentre il pubblicano esprime la sua contrizione stando a distanza, quasi intimorito, a testa bassa, e battendosi il petto. Sempre noi preghiamo con il corpo e le posture del corpo rivelano la qualità della relazione con il Signore e il senso (o meno) del nostro stare alla sua presenza. La preghiera richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Umiltà non è falsa modestia, non equivale a un io minimo, ma è autenticità, verità personale. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità; dove c’è orgoglio, c’è senso di superiorità e disprezzo degli altri. Nella preghiera noi facciamo riferimento a immagini di Dio, ma il cammino della preghiera altro non è che un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dal Cristo crocifisso, vera immagine rivelata di Dio che contesta tutte le immagini manufatte del divino. L’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili: egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo (la contabilità delle azioni meritorie) e che richiede il distacco dagli altri.
Comunità di Bose
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Lunedì 28 ottobre 2013
Gesù se ne andò sul monte a pregare
In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore. Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.
Lc 6,12-19
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Martedì 29 ottobre 2013
A che cosa posso paragonare il regno di Dio?
In quel tempo, diceva Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? E’ simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami». E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? E’ simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Lc 13,18-21
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Mercoledì 30 ottobre 2013
Vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”?. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”?. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Lc 13,22-30
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Giovedì 31 ottobre 2013
E’ necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino
In quel momento si avvicinarono a Gesù alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». Egli rispose loro: «Andate a dire a quella volpe: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”?. Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”».
Lc 13,31-35
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Venerdì 1 novembre 2013
Quale grande amore ci ha dato il Padre
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
1 Gv 3,1-3
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Sabato 2 novembre 2013
Quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli l’avete fatto a me
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»
Mt 25,31-46
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