ROMA – 01 febbraio 2009 – Di seguito l’editoriale pubblicato dal sito http://home.rifondazione.it
Si tratta di un contributo del segretario del Prc Paolo Ferrero.
Fuori dai palazzi per una politica di massa
domenica 01 febbraio 2009
di Paolo Ferrero
Vi sono epoche storiche in cui il tempo sembra scorrere più veloce, in cui si producono cambiamenti repentini, in cui ciò che due mesi prima appariva impossibile viene considerato normale. Vi sono epoche in cui i giorni valgono anni. Io penso che oggi stiamo attraversando una di queste epoche. La crisi che ha investito il sistema capitalistico a livello mondiale è destinata a modificare pesantemente le nostre vite. In Italia questa crisi sarà particolarmente pesante e oggi cominciamo ad averne una qualche consapevolezza.
In Italia più di un milione di persone perderanno il proprio posto di lavoro. Di questi la metà non avranno alcuna forma di sostegno del reddito. Molti stavano pagando il mutuo per la prima casa e la perderanno. La paura per il futuro tende a sostituire l’incertezza e l’insicurezza che già caratterizzavano gli ultimi anni.
La crisi non durerà pochi mesi, ma è destinata a durare a lungo perché non è frutto di un incidente di percorso degli speculatori finanziari ma è il frutto maturo della globalizzazione capitalistica. In questi venti anni è raddoppiato il numero di lavoratori salariati a livello mondiale e parallelamente è sceso il salario relativo. In questi anni ovunque nel mondo e in particolare in Italia sono aumentati i profitti e le rendite ed è diminuita la massa salariale e le pensioni. Questa iniqua distribuzione del reddito è all’origine della crisi: i lavoratori non hanno i soldi per comprare le merci che producono. I padroni non hanno nuovi mercati verso cui indirizzare la produzione eccedente. Da questa crisi non si esce senza un rovesciamento della distribuzione del reddito e senza una radicale messa in discussione delle tipologie di produzione e della stessa mercificazione dei valori d’uso.
Nello stesso tempo, il sistema politico italiano vive una crisi irrisolta. Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica non ha dato luogo ad una costruzione stabile, ma piuttosto ad una costruzione fragile. Il ricorso sempre più diffuso al populismo e il continuo scontro tra poteri dello stato ne è un chiaro indizio. Quella italiana, più che una lunga transizione, sembra alludere ad una sorta di crisi della repubblica di Weimar al rallentatore
Una crisi costituente
Per queste ragioni io penso che ci troviamo di fronte ad una crisi “costituente”, ad un punto di passaggio che modificherà radicalmente il quadro dei rapporti sociali, delle culture dominanti, delle rappresentanze politiche. La crisi – questa è la mia tesi – ha una valenza qualitativa simile alla crisi del ’29 e – in scala ridotta – alle guerre mondiali. Questa crisi non è un passaggio ma una fucina da cui il materiale che entra viene radicalmente trasformato.
In questa situazione, potenti forze operano per una uscita da destra dalla crisi. Oltre a Confindustria, il governo nel suo impasto di populismo reazionario e politiche economiche antisociali propone nei fatti come sbocco la guerra tra i poveri, o meglio, una gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale. Il Pd non va oltre alcune suggestioni da borghesia illuminata; accetta la riforma della contrattazione e il peggioramento dell’iniqua distribuzione del reddito isolando la Cgil e risponde alla sua crisi strategica – non è in grado di assumere una posizione chiara su nessun tema – forzando il carattere bipartitico della politica italiana e provando a distruggere la sinistra.
Le altre forze politiche presenti certo non sono in grado di rovesciare questa tendenza. Di Pietro ha accumulato consensi agitando l’antiberlusconismo e costruendosi una posizione di rendita sull’ignavia veltroniana, ma non propone alcun elemento progettuale in grado di prefigurare una uscita dalla crisi. Una parte della sinistra di alternativa – tra cui i compagni e le compagne usciti dal Prc – ha piegato il tema dell’alternativa all’interno della gabbia dell’alternanza, condannandosi così all’impotenza.
Il nostro progetto
Il nostro progetto al contrario propone una uscita da sinistra dalla crisi. Visto il carattere delle classi dominanti e delle rappresentanze politiche, proponiamo una uscita in basso a sinistra dalla crisi, perché non è all’orizzonte nulla di simile a quanto si è prodotto negli Stati Uniti con la vittoria di Obama. In altri termini non è alla portata un governo che persegua un New Deal comunque inteso, per cui la costruzione di uscita da sinistra dalla crisi deve necessariamente passare per una costruzione dal basso, in termini di conflitto, di vertenzialità, di progettualità, di costruzione di relazioni sociali solidali ed egualitarie.
Il nostro progetto si può così declinare: ridistribuire reddito, ridistribuire potere, riconvertire l’economia in senso ambientale e sociale attraverso un intervento pubblico forzato dal conflitto sociale. Questo progetto, per potersi realizzare, deve muoversi su più livelli: il conflitto sociale, la battaglia culturale, la pratica mutualistica della solidarietà, la riproposizione sul terreno della politica della prospettiva dell’alternativa.
A tal fine dobbiamo ripensare completamente il modo di essere e di agire del nostro partito. Occorre evitare qualsiasi continuismo e burocratismo interno. Il peggior ostacolo che oggi noi abbiamo è costituito dall’incapacità di capire che la realtà si è rimessa in movimento e nel pensare che si tratta di resistere, di aspettare che “passi la nottata”. Noi non siamo impegnati a fare una traversata del deserto in cui si tratta di resistere. Non siamo gli ultimi sopravvissuti di un esercito sconfitto chiamati a far la guardia a cosa resta di un passato glorioso dopo che la guerra è finita. Siamo dentro una guerra di movimento in cui le identità sociali, politiche e culturali che abbiamo ereditato sono messe pesantemente in discussione, disarticolate dalla crisi, ma anche disponibili al conflitto ed a cercare una via di uscita. Il problema oggi è la capacità di abbandonare completamente un atteggiamento di testimonianza e di propaganda per assumere una linea di massa che sappia interagire con la novità introdotta dalla crisi e su questa costruire le opportune alleanze e convergenze.
Questo, a mio parere, significa fare tre cose. In primo luogo essere costruttori di conflitto. Lo sciopero di Fiom e Funzione pubblica del 13 febbraio e il percorso di lotte pensato dalla Cgil così come le lotte che metterà in piedi il sindacalismo di base, non sono fatti sindacali. Sono la principale risorsa di mobilitazione su cui innervare un tentativo di uscita a sinistra dalla crisi. Dobbiamo lavorare a generalizzare queste lotte e a costruire mille punti di aggregazione, mille vertenze sul territorio. La rivendicazione di estendere gli ammortizzatori sociali a tutti coloro che perdono il lavoro – qualsiasi sia il lavoro, dai precari, ai dipendenti delle aziende artigiane, a tutta la platea del lavoro subordinato – è, da questo punto di vista, obiettivo centrale della piattaforma.
In secondo luogo essere costruttori di pratiche mutualistiche e di solidarietà, di vertenzialità con gli enti locali, per combattere la solitudine delle persone, dare risposte concrete a problemi concreti e creare legami comunitari solidali. Nessuno deve essere lasciato solo nella crisi.
In terzo luogo dobbiamo dare forma al progetto, dobbiamo trasformarlo in bandiere, slogan, ideali, proposta politica. Dobbiamo demistificare il carattere non naturale della crisi e unire le rivendicazioni materiali con la lotta al razzismo e al sessismo. Dobbiamo unire la richiesta della redistribuzione del reddito con la proposta dell’intervento pubblico per la riconversione ecologica e sociale dell’economia. Dobbiamo cioè avere chiaro che il nostro “essere comunisti” deve essere oggi completamente piegato al nostro “fare i comunisti”, cioè al nostro costruire qui ed ora il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Non è poco ma non è impossibile. Soprattutto è indispensabile.
1 Febbraio 2009