Torino – 22 dicembre 2015 – Oggi l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, ha incontrato i giornalisti e gli operatori dei media per comunicare il suo messaggio natalizio. Di seguito, l’intervento dell’arcivescovo.
CONFERENZA STAMPA DI NATALE DELL’ARCIVESCOVO DI TORINO, MONS. CESARE NOSIGLIA
(Torino, Arcivescovado, 22 dicembre 2015, ore 11,30)
Il messaggio del Natale
Questo Natale 2015 è segnato da eventi storici molto intensi che ci coinvolgono profondamente. Penso al Giubileo della misericordia che abbiamo appena iniziato, che ci richiama a un dono e compito particolarmente urgenti nell’attuale momento di tensione e paure indotte dai recenti fatti di Parigi e altri simili violenze presenti in diverse parti del mondo. Penso alle persecuzioni e alle uccisioni di tanti cristiani innocenti, colpevoli solo di seguire la propria religione. Sentiamo tutti che l’anelito alla pace e all’incontro esigito da una convivenza anche tra persone diverse per religione, razza e cultura è un traguardo indispensabile per assicurare un futuro alle nostre società. Per raggiungerlo è necessario non lasciarsi mai vincere dal male, ma vincerlo con il bene, con quella misericordia appunto che sa ascoltare, comprendere e, se necessario, perdonare, purché si ristabiliscano tra le persone comportamenti sereni e positivi. Purtroppo, le spinte ideologiche e fondamentaliste di stampo politico, culturale e religioso sembrano a volte prevalere su questo innato desiderio di pace che è presente nel cuore di ogni uomo. Gli angeli sulla grotta di Betlemme cantano «pace in terra agli uomini di buona volontà che Dio ama», aprendo così l’orizzonte delle diversità a una base comune di indirizzo che è quella dell’unità della famiglia umana, che ogni uomo appunto di buona volontà è chiamato a sostenere. Quest’espressione va oltre le barriere che dividono le persone e i popoli, perché non si rivolge a chi appartiene a una o all’altra religione, ma a chiunque – religioso o non – è impegnato ad essere operatore di giustizia e di pace. Il messaggio del Natale è dunque universale e riguarda la coscienza di ogni persona.
La responsabilità di ciascuno
Anzitutto, il Natale richiama tutta la città cosiddetta “per bene” alla propria responsabilità, che essa ignora o sfugge, verso la città minore o invisibile cui convive accanto. Una città invisibile che esiste e si estende sempre più dalle periferie al centro storico, dalle fasce medie a quelle tradizionalmente povere della popolazione. Sì, anche oggi per molti cittadini o stranieri tante porte restano chiuse, come è avvenuto per la famiglia di Nazaret a Betlemme. Se non le case, sono i cuori che anzitutto restano chiusi e questo ha conseguenze devastanti sulla rete di solidarietà e di giustizia che dovrebbe garantire a ogni cittadino il necessario per vivere, lavorare e sostenere la famiglia e il domani dei figli. La nostra gente è abituata a soffrire e ad arrangiarsi in ogni modo, ma oggi il perdurare della crisi è talmente esteso che sembra inutile tentare vie di uscita. Viene meno quella tradizionale tenacia e rocciosità, ricordata anche da Papa Francesco, propria della gente piemontese, a scapito di una condizione di fragilità permanente che spacca la città in più tronconi, ne frammenta le potenzialità e fa prevalere la regola del “si salvi chi può”, che alla lunga moltiplica le povertà e tarpa le ali alle soluzioni e all’impostare il futuro, che appare per molti non solo incerto ma chiuso. Ma occorre che – come dicevo domenica al Cottolengo – i programmi di sviluppo e di ripresa partano dagli ultimi e non dai primi: ce lo dice sempre Papa Francesco di non partire dal centro ma dalle periferie esistenziali per impostare il nostro oggi e il nostro domani. C’è poi una precisa responsabilità politica intesa nel senso ampio del termine, di chi svolge nella società ruoli e compiti istituzionali, ma anche culturali, economici e finanziari, sanitari… con il compito, di servire la verità, la giustizia e la pace nella società civile. Bisogna combattere la corruzione, la ricerca di tornaconti personali rispetto al bene comune, il potere non sorretto dalla volontà di servire, l’obbedienza a quelle leggi non scritte ma ingiuste che regolano il politicamente corretto, il mercantile e la finanza, lo stesso mondo del lavoro, della scuola e ogni ambito dei servizi. Mi permetto anche di richiamare la responsabilità degli operatori della comunicazione sociale. Credo che in questo momento di tensione internazionale dovuta ai recenti fatti di Parigi sia necessario che gli operatori dei media assumano una linea etica precisa: quella di non alimentare le diatribe, le divisioni e i contrasti, ma al contrario sostenere tutto ciò che opera nel quotidiano per promuovere la cultura dell’incontro e non dello scontro. Ci sono tanti segnali d’integrazione e di solidarietà e dialogo tra istituzioni e persone di diverse religioni e culture presenti nel nostro territorio. La Diocesi di Torino è un modello di accoglienza, collaborazione e rispetto di tutti – credenti e non –, per cui si moltiplicano le occasioni e le iniziative positive in questo ambito del convivere cittadino. Le voci stonate vanno certo censite e comprese, perché il problema non è semplice e facile da affrontare, come si vorrebbe far credere, ma lo sforzo di buona volontà in atto è forte, costante e capillare nel tessuto delle nostre parrocchie e comunità. Intensifichiamo dunque la cronaca delle buone prassi e non quella dell’indifferenza o del rifiuto, altrimenti facciamo un grosso favore agli estremisti e a quanti pescano nel torbido e hanno buon gioco e terreno fertile per seminare i loro messaggi devastanti di violenza e di contrapposizione.
Non continuiamo a percorrere vie sbagliate
Siamo in un tempo in cui una cappa di buio sembra essersi abbattuta sulla nostra città e civiltà occidentale e la paura e le preoccupazioni di ogni tipo, da quelle economiche a quelle politiche, sociali e spirituali comportano per ciascuno un supplemento di impegno per farvi fronte a partire dai fondamentali della nostra storia. Forse dobbiamo dircelo: ci siamo illusi e afflosciati, su alcune conquiste che sembravano traguardi sempre più grandi, positivi e sicuri, che la corsa a un nuovo sviluppo e progresso non si sarebbe arrestata. E invece, come la storia ci insegna, alle sette vacche grasse subentrano le sette vacche magre e, se durante l’abbondanza non si sta attenti ad essere sobrii, umili e discreti e a puntare su valori non solo mercantili e finanziari che passano, ma su quelli che restano – come sono il bene comune, l’onestà e la giustizia sociale, l’equità e il sostegno delle fasce più deboli e indifese dalla cittadinanza, insieme ai valori etici e spirituali che sono l’anima che orienta e guida ogni altro ambito di vita personale e sociale –, alla lunga tutto crolla. Abbiamo costruito un regno di cui eravamo orgogliosi come la statua vista in sogno dal re Nabucodonosor, che il profeta Daniele interpretò: essa aveva la testa di oro raffinato, il petto e le braccia di argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro… ma, ahimé, i piedi erano in parte di ferro e in parte di creta, per cui è bastata una piccola pietruzza rotolata giù dalla montagna a colpire quei piedi per far crollare tutta la grande statua (cfr. Dn 2,24-45). Così è stata la parabola discendente che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni: non ci siamo preoccupati dei piedi e dunque dei fondamentali che sono i valori etici, spirituali e civili, ma di tutto il resto che era bello e affascinante ma non così utile e stabile come deve essere la roccia su cui poggiare anche per il futuro l’intero edificio della società. La scrittura ce lo ricorda: se Dio non sta a fondamento della tua casa, della tua città e della tua vita, è inutile che ti dai da fare lavorando notte e giorno… alla fine batti l’aria e tutto crolla miseramente, come una casa costruita sulla sabbia e non sulla roccia (cfr. Mt 7,24-29).
Di fronte a tutto ciò credo che occorra da parte nostra invertire la tendenza – il trend, come si dice – basata sul primato della cultura dei soldi, dello scarto e dell’individualismo e puntare sulla cultura dell’incontro, della gratuità e della fraternità, ripartendo – come ci dice Papa Francesco – dagli ultimi, da chi non conta e sta ai margini o è invisibile nella città luminosa e piena di luci delle sue vie centrali e dei suoi tesori, dove durante il giorno si respira aria di festa e di svago chiassoso e felice e la notte si vedono sempre più persone che, rannicchiate nei cartoni o in coperte sgualcite, dormono per strada, sotto i portici, nelle piazze; gente in furgoni e nelle macchine; gente invisibile per la maggior parte della città che conta. «Non temete», dicono ancora gli angeli. È un invito di cui abbiamo bisogno, perché è facile lasciarsi prendere dalla paura e dalla rabbia che subentrano spesso nell’animo di tanti di fronte ai fatti del nostro tempo così tumultuoso, in cui sembra che perfino la ragione sia oscurata dall’inganno e dal male. Ma non è così, perché il Salvatore Gesù, che nasce per tutti, porta in sé la potenza di Dio e ci garantisce che la luce vince le tenebre e che il suo Vangelo cambia radicalmente non solo la propria vita, ma anche quella del mondo. Come alimentare questa speranza? Guardando dunque a Gesù e alle tantissime cose ed esperienze positive che nascono dalla fede in lui e che ci sono attorno a noi e di cui noi stessi possiamo fare parte. Penso, ad esempio, a tutto l’impegno indefesso e capillare di un esercito di volontari che donano il loro tempo, soldi e beni per i più poveri e che non cessano di condividere con loro le situazioni più tragiche della vita e i momenti di prova e di difficoltà.
Penso alle oltre 200 famiglie e 150 tra parrocchie e Istituti religiosi che hanno accettato di accogliere uno o più rifugiati senza guardare se è “dei nostri o dei loro”, bianco o nero o giallo, cristiano o mussulmano o di un’altra religione o cultura. Gli immigrati e rifugiati presenti o seguiti nelle strutture ecclesiali del territorio fanno fronte ormai a metà di quelli accolti in questi anni; ogni giorno le diverse mense distribuiscono migliaia di pasti a mezzogiorno, alla sera e molte anche la domenica. I nostri Centri di ascolto e le associazioni che si investono dei problemi di tante persone e famiglie circa il problema del lavoro, della casa, dei sussidi vitali, della salute sia fisica che psicologica e spirituale di chi è in difficoltà sotto questo aspetto, non si limitano a rispondere all’emergenza, ma accompagnano capillarmente e in modo continuato molte di queste persone e famiglie. Il progetto “Sister” della Caritas e non poche parrocchie e la stessa diocesi offrono la possibilità a tante famiglie oggetto di sfratto incolpevole di avere un alloggio, in attesa di poter contare su una casa popolare da parte del Comune. Questo settore può contare, come sapete, dell’apporto delle risorse che ci ha lasciato il Papa. I centri di accoglienza di persone senza dimora come la Sosta e i dormitori per far fronte all’emergenza freddo si moltiplicano. Ma quello che a mio parere più conta è l’impegno di tante parrocchie, associazioni e realtà ecclesiali e civili nel sostenere con adeguati percorsi di inclusione sociale tutte queste persone bisognose di riprendere in mano la propria vita e il proprio futuro. Andare oltre un welfare di assistenza e affrontare il necessario sbocco nel mondo del lavoro rappresenta il nostro impegno più urgente in questo momento.
L’Ufficio di pastorale del lavoro, attraverso la Fondazione Operti, che stanno seguendo in particolare questo settore, stanno aumentando di molto il loro impegno in particolare verso i giovani, anche loro grazie all’apporto che ci è venuto dalle risorse che il Papa ci ha lasciato. Tra tutte queste iniziative desidero richiamarne una che rappresenta a mio avviso un modello unico non solo per la nostra città: quella dell’accoglienza di un’ottantina di immigrati e rifugiati in uno stabile di una congregazione religiosa, occupato e che viene ristrutturato in questi mesi sotto la regia di un’équipe composta da Migrantes e Caritas, Istituto religioso, centro sociale e cooperativa, con l’apporto anche degli stessi immigrati e rifugiati. Una collaborazione che sta funzionando bene e che offre una risposta appropriata a un problema che, presente in altre parti della città, crea invece situazioni di grosse difficoltà gestionali. Non è l’unico caso che vede la diocesi nei suoi organismi collaborare insieme sia a Istituti religiosi che allo stesso Comune. Come ogni anno ho iniziato da alcuni giorni il mio solito giro, il mio “presepe di Natale” – come lo chiamo –, andando a servire e a mangiare insieme in alcune mense dei poveri; a Natale andrò a servire e mangiare con i poveri nella chiesa dei Santi Martiri, gestita dalla comunità di S. Egidio; il 27 pranzerò a casa mia con i poveri che alloggiano in arcivescovado; il 29 sarò alla Cena dei mille; incontro in questi giorni anche immigrati e rifugiati, Rom e senza dimora sia a Torino, sia fuori; i carcerati; il Sermig; gli ospiti dei dormitori. Ascolto e condivido tante difficoltà e richieste e sperimento che i poveri hanno una ricchezza da donarci: quella della loro sofferenza ma anche della loro speranza. Sono certo che, se potessimo far fruttare bene questo patrimonio valorizzandolo, potremmo assicurare alla nostra città una ripresa di cittadinanza e di fraternità che la illuminerebbe tutta. Perché la vera luce che dà calore e forza parte dal cuore e solo chi sa ascoltarla e accoglierla se ne arricchisce e la gusta fino in fondo. Anche qui racconto un’esperienza, che ho fatto ieri presso la Mensa amica della parrocchia S. Giuseppe Cafasso, dove regolarmente si offre il pranzo a poveri, Rom, famiglie in difficoltà, senza dimora. Volontari e poveri presenti hanno voluto raccogliere offerte da darmi per altri poveri: un gesto che mi ha commosso e che ripete quanto già mi era capitato con i senza dimora, che mi avevano portato un sacchetto di monete raccolte per i rifugiati. I poveri e chi si dedica gratuitamente a loro che si rendono responsabili di aiutare altri poveri sono un segno di grande luce e speranza, un bel regalo di Natale più di ogni altro. Il Natale infonda dunque in tutti la speranza di rimettersi in piedi senza stanchezze o ritardi, perché ciascuno faccia la sua parte rendendosi responsabile di un altro fratello o sorella in difficoltà, in modo che possa sentire il calore dell’amore vero e concreto e superi quel senso di solitudine che attanaglia il cuore più di tutto.
La lettera di Natale
Guardate la copertina: ci sono una mensa dei poveri, un dormitorio, Rom nel campo, malati in ospedale; e il titolo che la illustra: «La casa dove rinasce Gesù». Egli è nato povero in una stalla e lì lo trovano sia i pastori – gente semplice –, sia i Magi – gente altolocata e nobile e ricca. Così oggi, tutti – di qualsiasi ceto sociale – possiamo rivedere e incontrare Gesù nei poveri. Questo è anche il senso dell’avvenuta apertura della Porta Santa al Cottolengo, con il successivo pranzo con i poveri e le personalità di Torino, che ringrazio per aver accettato l’invito.
Alle famiglie parlo del dono che hanno ricevuto di essere famiglia, realtà santificata da Dio fin dall’origine del mondo e da Cristo poi in modo tutto particolare. Le invito a riscoprire ogni giorno questa radice di gioia, di vita e di grazia che posseggono e le invito a fare della propria casa una piccola Chiesa, vivendo l’amore tra la coppia di sposi e i figli per creare un ambiente di vita educativo e ricco di valori positivi.
Rivolgo anche un invito esplicito ad aprire la propria casa nei giorni delle Feste – e in particolare la domenica della Santa Famiglia, il 27 dicembre – alla presenza di un povero, da ospitare a pranzo insieme. Un segno di accoglienza di Gesù stesso, rifiutato a Betlemme, ma che necessita anche oggi di essere accolto con gioia nella propria casa. I poveri ne sono la realtà e la viva presenza. I poveri ci permettono di esercitare in concreto la vera misericordia a cui ci richiama il Giubileo. Sono quella Porta Santa da varcare che ci permette di beneficiare della misericordia di Dio e dunque della sua salvezza.
+Cesare Nosiglia
Arcivescovo di Torino
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Audio integrale dell’intervento dell’arcivescovo:
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